domenica 25 maggio 2008


INTOLLERANZE: ATTENZIONE ALLA DIAGNOSI!

Intolleranze alimentari: il problema è la diagnosi?
Cosa si intende per “reazioni avverse” al cibo?
I test attualmente a nostra disposizione sono attendibili?
Esiste qualche eccezione?
Le intolleranze alimentari “fanno ingrassare”?

Intolleranze alimentari: il problema è la diagnosi?

Da qualche anno, le intolleranze alimentari o pseudoallergie (nulla a che fare con le vere allergie alimentari) sono diventate il pretesto per una batteria di accertamenti costosi ma approssimativi e in certi casi perfino inaffidabili.

Le intolleranze alimentari esistono realmente e le statistiche ne confermano il continuo aumento, ma non di rado sono occasionali (in corso di convalescenze), stagionali (in rapporto alla fioritura dei pollini) e comunque di difficile accertamento per la mancanza nel sangue di anticorpi specifici che ne confermino la presenza. Infatti, mentre è relativamente facile documentare l’esistenza di una vera “allergia”, in base alla presenza di specifici anticorpi, non esistono certezze per altre reazioni avverse agli alimenti o presunte intolleranze.

Eppure il lato più scoraggiante della vicenda non sta tanto nel prosperare di un sottomercato più commerciale che scientifico quanto nel danno alla salute che può derivare dalle conseguenti diete.
I pazienti sottoposti a questi test ricevono indicazioni dietetiche severissime, con esclusione di interi gruppi di alimenti e quindi col pericolo di aggiungere anche la beffa della malnutrizione, dovuta alla monotonia alimentare e alle conseguenti carenze vitaminico-minerali.

Cosa si intende per “reazioni avverse” al cibo?

Gli alimenti, o anche gli additivi, i conservanti, gli antiossidanti, possono provocare reazioni avverse, sia esterne (a carico della cute) che interne (per esempio a livello gastrointestinale). Alcune di queste reazioni sono di natura tossica, prevedibili, intimamente correlate con la dose, e possono interessare chiunque: tipica l'intossicazione da funghi o da tossine prodotte da batteri che hanno contaminato un alimento. Altre reazioni avverse invece sono non tossiche e non prevedibili, e non interessano tutti ma solo le persone predisposte: a questa categoria appartengono le allergie e le intolleranze alimentari.
Nel parlare comune le due reazioni vengono spesso confuse tra loro, ma hanno in realtà una natura profondamente diversa: a differenza delle allergie le intolleranze quasi mai provocano reazioni forti, e mai e poi mai shock anafilattico. Sono dose-dipendenti, cioè agiscono in relazione alla quantità di alimento ingerita, e in genere sono dovute all’impossibilità dell’organismo di digerire un dato cibo, magari per un difetto metabolico dell’individuo. Tuttavia la differenza fondamentale tra le due reazioni è che le intolleranze non coinvolgono il sistema immunitario, le allergie sì.
Bisogna comunque sottolineare che il tema delle “reazioni avverse al cibo” è tuttora uno dei più controversi e meno certificabili della dietologia.

I test attualmente a nostra disposizione sono attendibili?

Le differenze di opinione fra gli esperti sono molte e riguardano l’attendibilità di alcune procedure diagnostiche giudicate “unproven” (perciò carenti di validità diagnostica), sia dall’Accademia Americana di Allergia e Immunologia, sia dalla consorella europea (European Academy of Allergy and Clinical Immunology). Se nel campo delle allergie, infatti, il responso del laboratorio consente valutazioni obiettive, per la presenza di specifiche immunoglobuline, tutto resta mal definibile quando si passa alle intolleranze.

In assenza di risposte certe dilagano i test alternativi, costosi e spesso inutili", basta dire che l’American Gastroenterologic Association ha perfino dettagliato, accanto ai test da praticare, anche quelli senza valore o, addirittura, controindicati (Test cutaneo intradermico con cibo, Test di citotossicità, Misura dell’attività elettrica cutanea, Biorisonanza, Conta delle pulsazioni pre e post-cibo sospetto, Chinesiologia applicata, ecc.)".

Esiste qualche eccezione?

Tra le intolleranze enzimatiche più frequenti rientra il deficit di lattasi, più noto come intolleranza al lattosio. In questo caso disponiamo però di un accertamento utile: il test del respiro o “breath test”. Una sorta di prova da carico che dopo l’ingestione di una quantità standard di lattosio permetterà di valutare, nell’aria espirata, le tracce dei gas derivati dalla fermentazione del lattosio non digerito.

I gastroenterologi hanno rilevato però, anche in questo caso, che soltanto un terzo o al massimo la metà dei soggetti “etichettati” come intolleranti al lattosio lo è veramente (spesso si tratta di “colon irritabile”) quando viene sottoposta al test. Ciò significa che in troppi casi è stata imposta, senza un’adeguata diagnosi, l’astinenza dal latte e dai suoi derivati creando inutili difficoltà alimentari.

Le intolleranze alimentari “fanno ingrassare”?


Assolutamente no, al contrario, l'intolleranza genera problemi digestivi che possono portare solo al malassorbimento di una parte dei nutrienti; quindi, semmai, al dimagrimento e non all’aumento di peso. Il meccanismo di reazione, cioè di intolleranza, infatti, può rendere inutilizzabili le calorie potenziali di certi alimenti ma in nessun caso potrà mai aumentarne il valore calorico, qualunque sia la combinazione in cui gli alimenti sono stati assunti!
È necessario quindi prestare attenzione agli operatori, quantomeno poco documentati, che promettono miracolose perdite di peso grazie all'eliminazione dei cibi "incriminati". Di intolleranze, infatti, non si ingrassa...

domenica 18 maggio 2008


CARBOIDRATI, SBAGLIATO FARNE A MENO

Carboidrati, alla base della nostra alimentazione?
Meglio il pane o i "sostituti"?
La pasta, la più amata dagli italiani e non solo?
Pizza: sì, ma quale?


Carboidrati, alla base della nostra alimentazione?


Oramai è un fatto assodato: una dieta del tutto priva di carboidrati è assolutamente sconsigliata e i nutrizionisti non la impongono neanche a chi deve seguire un regime alimentare ipocalorico. Alla base della piramide alimentare i carboidrati “complessi” dei cereali, dei legumi, dei tuberi, rappresentano infatti la benzina “pulita” e meno inquinante per le esigenze energetiche delle cellule umane.

Secondo le regole della Scienza dell’Alimentazione i carboidrati dovrebbero fornire almeno la metà delle calorie utilizzate dall’uomo, sedentario o sportivo che sia. E poco importa se tale quota derivi dal pane, dalla pasta, dal riso o dai legumi, dato che l’assorbimento dell’amido sia pure con diverse velocità avverrà sempre sotto forma di glucosio.

Quando si consuma un alimento a base di carboidrati, si verifica un innalzamento del livello di glucosio nel sangue a cui fa seguito la risposta del pancreas che invia l’insulina necessaria alla trasformazione metabolica del glucosio in eccesso, ristabilendo, più o meno dopo un paio di ore dal pasto, la normale concentrazione di zucchero nel sangue. Questo fenomeno è fondamentale per garantire all'organismo il corretto apporto energetico.

I “risparmi” dietetici, quando davvero occorrono, è bene quindi che avvengano in primo luogo a spese di grassi, bevande alcoliche e dai tanto pubblicizzati "snack".

Meglio il pane o i "sostituti"?


Gli italiani consumano sempre meno pane. Si tratta di un dato statistico, ma ciò non significa che sia una scelta ragionevole, almeno per alcuni. Preoccupati di mangiare troppo identifichiamo nel pane la causa prima dell’aumento di peso, ma una tale semplificazione è ben lontana dalla verità. Anche per un sedentario c’è l’opportunità di mangiare un paio di panini (150 grammi) al giorno o l’equivalente in peso di un buon pane casareccio. Non c’è giustificazione, perciò, per abbandonare il consumo del pane, ma piuttosto occorre equilibrarne le quantità con gli altri cibi amidacei che si utilizzeranno nella giornata.

A chi vorrebbe sostituire il pane con cracker e grissini va ricordato che per il confezionamento di questi prodotti si utilizzano anche dei grassi che non sono consentiti nel pane comune. Inoltre, cracker e grissini hanno perduto l’acqua di cui è ancora ricco il pane, perciò conterranno, ovviamente a parità di peso, più amido e quindi più calorie.

Il pane di frumento poi non ha solo un alto contenuto di amido ma è anche una fonte di vitamine del complesso B, fosforo, magnesio e fibre, presenti soprattutto nel pane integrale o semi-integrale, ma assai meno nel pane bianchissimo, ricavato da farina 00.
La crusca, abbondante nel pane più scuro, ha proprietà utili per le funzioni intestinali e per alleviare il senso di fame che tormenta le troppe persone che si assoggettano a diete esageratamente restrittive.

Per il pane, come per la pasta, quindi, non si dovrebbe mai parlare di abolizione, ma soltanto di un razionale adeguamento alle effettive necessità energetiche di ciascuno.

La pasta, la più amata dagli italiani e non solo?

Può sembrare superflua una puntualizzazione sul ruolo nutrizionale della pasta, dal momento che il mito della dieta mediterranea l’ha portata alla ribalta internazionale, legittimandone il successo gastronomico con la razionalità dietetica.
La pasta, così come i legumi, impegna più a lungo gli enzimi digestivi e quindi cede con gradualità il proprio glucosio con il vantaggio di squilibrare meno la glicemia e garantire più a lungo il senso di sazietà.
Queste due particolarità si stanno dimostrando importanti per le popolazioni industrializzate che debbono fronteggiare il contrasto fra le diminuite necessità “energetiche” e l’accresciuta quantità e qualità dell’offerta alimentare. Inoltre, l’avvento della pasta integrale sui banchi dei supermercati ha segnato un altro punto a favore della pasta, almeno sotto l’aspetto nutrizionale.
La pasta può rientrare, quindi, sia nelle diete ipocaloriche sia in quelle ipercaloriche: è solo questione di quantità e di condimenti!

“Se per razione di pasta si intendono più di 100 grammi di spaghetti, conditi abbondantemente, magari con panna, burro e formaggio, in una giornata già ridondante di Coca-Cola e patatine fritte, allora... si tratta di buonsenso e non di colpe della pasta.
La pasta può al limite essere accusata di non essere un alimento completo ed equilibrato: questo perché manca di grassi e perché le sue proteine scarseggiano di due aminoacidi importanti coma la lisina e la treonina. Ma nessuno mangia la pasta del tutto scondita! Bastano un paio di cucchiaini di formaggio o del ragù per riequilibrare la completezza del piatto.
A questo punto, tuttavia, si può o si deve rinunciare a un “secondo” piatto (almeno fino a cena) per limitarsi a uno o più contorni di verdura e a della frutta.

Pizza: sì, ma quale?

Non c’è alcun dubbio che la pizza rappresenti un altro caposaldo della tradizione mediterranea e che costituisca una facile e gustosa alternativa anche per chi è costretto a pranzare spesso fuori casa.
Tutto ciò con il parziale beneplacito dei dietologi che non avrebbero nulla da ridire se i rapporti tra i nutrienti e la quantità degli ingredienti fosse sempre quella della classica “pizza margherita” con pomodoro e mozzarella.

L’interrogativo dietetico deriva, invece, dallo sbizzarrirsi della fantasia dei cuochi che non si limitano più al primitivo piatto della cucina napoletana, dove acqua, farina, lievito pomodoro, aglio e olio, senza neppure la mozzarella, rappresentavano gli ingredienti di base. Oggi alla pizza viene aggiunto di un po' di tutto dal salame, alle cozze, ai sottaceti, per cui nessun dietologo può predirne la digeribilità o conteggiarne il valore energetico.
Nell’attesa di "standardizzare" il valore nutrizionale medio della pizza proponiamo come riferimento attendibile il dato di una pubblicazione dell’Istituto Nazionale di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione che assegna alla “pizza con pomodoro e mozzarella”, nella classica versione napoletana, i seguenti valori per una confezione da 100 g, così come potrebbe essere richiesta a un venditore di “pizza a taglio”: proteine 5,6 g, grassi 5,6 g, carboidrati 52,9 g, kcalorie 271.

Pizza sì quindi, ma facendo attenzione a quello che c'è sopra!

domenica 11 maggio 2008


SOLE E PELLE

Con l’arrivo della bella stagione incominciano le “scorpacciate” di mare e di sole.
Ecco alcuni consigli per fare in modo che sfruttiamo solo i benefici che derivano dall’esposizione al sole.


Quando proteggersi dal sole?

In linea generale ci si cautela dalle radiazioni solari soprattutto in estate. La nostra pelle però assorbe le radiazioni tutto l’anno (seppure solo in alcune zone del corpo) e ha una “memoria” per cui ogni eccesso, bruciatura o imprudenza viene sempre registrato. È l’accumulo di questi errori nel tempo, in realtà, a causare i danni maggiori. Se quindi per alcuni decenni l’abbronzatura ha rappresentato uno status symbol da raggiungere ad ogni costo, oggi l’attenzione è rivolta soprattutto alla prevenzione. Sappiamo infatti che, se gestito con la dovuta cautela, il sole può essere addirittura terapeutico. Vale comunque la regola d’oro di evitare qualsiasi eccesso.

Le pillole abbronzanti aiutano a proteggersi?


È un’illusione che le pillole abbronzanti preparino e proteggano la pelle dalle radiazioni solari. Non vi è alcuna prova a supporto di questa teoria. Quasi nessuna delle sostanze contenute in queste pillole è approvata o raccomandata dagli organi ufficiali. Anzi, alcune sostanze usate in passato sono state addirittura ritirate dal mercato.

Oggi sono sempre più diffusi prodotti a base di beta-carotene, un carotenoide che viene lentamente convertito in vitamina A dall’organismo, e i farmaci contenenti vitamina A (retinoidi), che vengono utilizzati nel trattamento dell’acne e della psoriasi grave. Si sta addirittura studiando l’applicazione dei retinoidi in alcuni tipi di tumore, tuttavia la loro assunzione in quantità elevate può essere tossica. I sintomi da sovradosaggio di entrambe le sostanze citate sono simili: una colorazione della pelle che va dall’arancione al marrone, soprattutto sui palmi delle mani e sulle piante dei piedi, danni al fegato, attacchi di orticaria e una particolare forma di retinopatia (si formano depositi gialli nella retina che fortunatamente scompaiono sospendendo l’assunzione della sostanza).

È vero che alcuni prodotti sono responsabili di reazioni quando ci si espone al sole?

Sì, esistono prodotti cosmetici per uso esterno foto-sensibilizzanti. È il caso ad esempio di alcuni profumi o acque di colonia, deodoranti, antisettici, schiume da barba. In particolare quelli contenenti alcuni principi attivi vegetali, quali: il carciofo, l’angelica, il limone, l’anice, il finocchio, il prezzemolo e, contrariamente all’opinione comune, la carota.

Anche alcuni farmaci possono provocare le medesime reazioni: i diuretici, gli ipoglicemizzanti, gli antibiotici e i sulfamidici, gli ansiolitici e gli antistaminici. È quindi necessario informarsi sempre dal proprio medico o dal farmacista prima di esporsi al sole quando ci si sottopone a un trattamento farmacologico.

Sole e ossa: un binomio vincente?


Alle ossa il sole fa senz’altro bene, e non solo a quelle dei bambini e degli adolescenti, che divengono più resistenti, ma anche a quelle degli anziani in cui l’esposizione al sole contrasta la perdita di calcio e l’osteoporosi (specie nelle donne). Anche coloro che soffrono di artrosi e di reumatismi possono beneficiare del sole perché le esposizioni e il calore contribuiscono a diminuire i dolori.

I raggi solari servono poi a prevenire il rachitismo, che fa sì che le ossa del bambino non si induriscano a dovere perché non assorbono sufficiente calcio. Spesso la causa è una carenza di vitamina D, che favorisce l’assorbimento del calcio. L’esposizione ai raggi UV stimola la produzione di vitamina D. Di questi tempi però, se ne ingeriscono quantità sufficienti attraverso il cibo, ed è meno probabile svilupparne una carenza nei paesi occidentali.

Per quali problemi della pelle è consigliato esporsi al sole?


Psoriasi, eczema e vitiligine sono malattie della pelle per le quali viene raccomandata l’esposizione al sole, seppure con moderazione.

Alle persone affette da psoriasi una quantità moderata di luce solare può infatti migliorare le lesioni e la desquamazione in modo significativo. Purtroppo un’esposizione eccessiva rischia di provocare delle acutizzazioni, trattandosi di una malattia autoimmune. In ogni caso la cute va protetta con un filtro solare ad alto fattore di protezione.

L’eczema è un’affezione cutanea generalmente recidivante. Si tratta di un’irritazione che rende la pelle secca e squamosa e provoca un fastidiosissimo prurito. Nel trattarla si cerca soprattutto di alleviare il prurito e la secchezza cutanea e nei casi più gravi si sottopone il paziente a fototerapia.

La vitiligine è un disturbo causato dall’assenza di melanociti in una precisa area cutanea, con conseguente perdita della pigmentazione e chiazze bianche. Poiché molti soggetti posseggono ancora alcuni melanociti nelle zone interessate da vitiligine, la fototerapia e l’esposizione alle radiazioni solari permettono di stimolare la produzione del pigmento. Tuttavia il paziente corre maggiori rischi di sviluppare un carcinoma squamoso della pelle.

L’ittero, infine, è il sintomo di una malattia epatica che generalmente non lascia strascichi. Si manifesta con una colorazione giallastra della pelle che di norma la fototerapia contribuisce a far riassorbire.

Va comunque detto che anche una pelle sana trae vantaggio da una moderata esposizione alle radiazioni UV, infatti il calore dei raggi provoca una vasodilatazione che di conseguenza fa aumentare l’ossigenazione della pelle. Un naturale trattamento stimolante e rivitalizzante cui far ricorso senza esagerare.

Abbronzatura: un bilancio di pro e contro

Per quanto le radiazioni ultraviolette del sole aumentino il rischio di tumori alla pelle, è anche vero che stimolano la produzione di vitamina D che, a quanto pare, è uno dei fattori per la prevenzione e la cura del cancro. Sembra infatti che questa vitamina possegga alcune proprietà antitumorali e che la sua carenza si associ all’aumento della predisposizione a questo tipo di tumore. Attualmente non vi è nulla di dimostrato, ma il National Cancer Institute americano sta svolgendo alcuni studi volti a dimostrare la veridicità di questa teoria e soprattutto a quantificare i tempi di esposizione al sole tali da stimolare un’idonea produzione della vitamina.

Malgrado questi importanti fattori curativi, se non si seguono gli accorgimenti necessari, gli effetti nocivi dell’esposizione ai raggi UV in genere superano quelli positivi. Oltre agli effetti a breve termine quali scottature ed eritemi, alla lunga la sovraesposizione ai raggi del sole può danneggiare la pelle, gli occhi e - si sospetta - anche il sistema immunitario, senza contare l’aspetto estetico: il foto-invecchiamento precoce della pelle. Un sano comportamento nell’esporsi al sole, quindi, rappresenta l’unica forma per cautelarsi nei confronti dei possibili danni nel tempo.

domenica 4 maggio 2008


L'OSTEOPOROSI

CALCIO DA MANGIARE
COME MANGIARE E CONTRASTARE L'OSTEOPOROSI



Per contrastare la fragilità ossea è indispensabile agire a livello dell'alimentazione. Nelle fasi della vita, dalla nascita alla terza età, occorre un certo equilibrio dei nutrienti, ogni età avrà poi le sue specifiche esigenze.

Dal punto di vista delle ossa: vitamina D e calcio devono essere sempre presenti, in misura diversa a seconda che sia una fase di crescita o di mantenimento. Il periodo della menopausa per le donne rappresenta l'inizio di una fase di deficit di calcio, per cui proprio in questo momento serve far ricorso a un maggior apporto di alimenti che ne siano ricchi: latte, formaggio e yogurt.

Nelle donne in età post-menopausale si consiglia un apporto di calcio da 1200 a 1500 mg in assenza di terapia con estrogeni. Nel caso di terapia con estrogeni, il fabbisogno è uguale a quello degli anziani maschi (1000 mg).

Secondo le stime le donne italiane non assumono a sufficienza alimenti ricchi di calcio. La media giornaliera di calcio presente nella dieta femminile risulta di 630 mg al giorno, meno della metà delle quantità suggerite dai nutrizionisti.


LA PREVENZIONE DELL'OSTEOPOROSI INIZIA DAI GIOVANI


Basta trattare l'osteoporosi soltanto come un problema da anziani. La fragilità ossea ha le sue più gravi conseguenze in età avanzata, si manifesta nel modo più evidente con le fratture di vertebre e di femore, ma in realtà ha una storia che comincia molto prima e sulla quale c'è possibilità di intervento precoce: innanzitutto con la prevenzione.

L'educazione sanitaria parla spesso di prevenzione dentale, e più raramente di prevenzione ossea, sebbene si calcoli che soltanto in Europa si verifichi una fratture da osteoporosi ogni 30 secondi. Notevole il costo sanitario e umano: si pensi che il tasso di mortalità nel caso di frattura del femore passa dal 5% nei primi giorni al 25% entro l'anno.

Arrivare alla frattura, evento drammatico e nella maggioranza dei casi fortemente invalidante, significa non aver agito preventivamente con stile di vita, dieta, trattamenti farmacologici e diagnosi precoce. L'esame che rileva la fragilità ossea è la mineralometria ossea computerizzata (MOC), da eseguire per intervenire prima possibile.

NELLA CURA DELL'OSTEOPOROSI
E' LA QUALITÀ CHE FA LA DIFFERENZA



L'osteoporosi è una malattia che colpisce la struttura portante del nostro corpo. Ne soffrono 5 milioni di donne in Italia, anche se oggi ci sono buoni strumenti di analisi per la prevenzione e metodi di cura efficaci. Il problema è che si può esserne colpiti senza neppure saperlo, tanto che viene chiamata "l'epidemia silenziosa". Siccome i primi sintomi possono essere lievi o invisibili, la diagnosi potrebbe essere tardiva.

L'esame tipico per individuare l'osteoporosi evidenzia la densità minerale ossea (DMO). Questo dato si rivela però insufficiente per la scelta di una terapia anti-osteoporosi, pur restando un utile strumento diagnostico. Infatti, tra i parametri di valutazione del rischio frattura è determinante l'elemento qualitativo.

Migliore è la qualità dell'osso, minore è il rischio di fratture. La terapia farmacologica deve, quindi, preservare le proprietà strutturali e materiali, e regolare l'osso di neoformazione.

Osso sano

La qualità dell'osso dipende da tre elementi specifici:

1. le proprietà strutturali che sono costituite dalla forma, dalla dimensione e dalla microarchitettura, ovvero dall'intelaiatura interna dell'osso
2. le proprietà materiali che comprendono la composizione di minerali e collagene per la forza e l'elasticità
3. il turnover osseo ossia il continuo "ringiovanimento" dell'osso.

Osso osteoporotico

Gli stessi elementi in un osso non più sano:

1. l'intelaiatura interna dell'osso in presenza di osteoporosi si assottiglia e diventa fragilissima
2. la mineralizzazione si riduce, il collagene si deteriora e di conseguenza l'osso si indebolisce e si rompe più facilmente
3. il processo di ricostruzione è sbilanciato, l'osso neoformato non è più in grado di compensare l'osso distrutto

L'alfabeto della prevenzione

Un programma completo per prevenire l'osteoporosi comprende:
Abitudini di vita sane, niente fumo e alcol
Bagni di sole per la produzione di vitamina D
Calcio: una dieta bilanciata con alimenti naturalmente ricchi di calcio
Densità minerale ossea, l'esame per tenere sotto controllo la salute delle ossa
Esercizio fisico per il controllo del peso e il rinforzo dell'apparato muscolo-scheletrico

Terapie farmacologiche


Proteggere la microarchitettura delle ossa è l'obiettivo delle terapie. Ad oggi sono disponibili 4 diverse terapie farmacologiche:
1. Bisfosfonati. Classe di farmaci che comprende il risedronato, l'alendronato e l'etidronato, che rappresenta la prima scelta per il trattamento di pazienti con osteoporosi manifesta. Riducono il rischio di fratture a livello della colonna vertebrale e del femore.
2. Ormoni/Terapie estrogeniche sostitutive. Farmaci indicati per gli effetti positivi sui sintomi della menopausa funzionano anche nella prevenzione dell'osteoporosi. Non è stata pienamente dimostrata la capacità di ridurre il rischio di fratture.
3. Calcitonina. E' un ormone naturale coinvolto nel processo di regolazione del calcio e nel metabolismo osseo. Riduce il rischio di fratture alla colonna.
4. Modulatori selettivi dei recettori estrogenici (SERMs). Questi medicinali riproducono gli effetti positivi degli estrogeni nella protezione contro l'osteoporosi e contro le malattie cardiovascolari, evitando gli effetti delle terapie ormonali sostitutive. In particolare sono utili nel ridurre le fratture vertebrali.

Menopausa: una seconda giovinezza


Considerando l'allungamento medio della vita, una donna che raggiunge la menopausa ha un'aspettativa di trascorrere dai 30 ai 40 anni in tale situazione. Oggi le donne possono affrontare questa fase della vita con serenità, vigore e continuità. I disagi e i sintomi psichici e organici che si manifestano durante il climaterio e la menopausa possono infatti essere superati facilmente grazie a una sana condotta di vita e ai rimedi naturali o farmacologici disponibili. Benesseredonna prova a dare un piccolo contributo in questa direzione, per aiutare la donna a maturare una più profonda conoscenza e consapevolezza di sé e a vivere la menopausa come una seconda giovinezza.